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Tradizioni popolari

La storia millenaria del Friuli è contrassegnata da circostanze infauste che tuttavia non hanno mai mutato il “comune sentire” dei friulani. Questo fino alla metà del Novecento.

La ricostruzione post-bellica, l’industrializzazione, quindi la globalizzazione e la più recente immigrazione hanno, di fatto, tristemente mutato le antiche consuetudini del Popolo friulano. Una metamorfosi forse inevitabile, che ha portato fatalmente al tramonto di molte tradizioni che distinguevano queste terre.

I riti solari del fuoco hanno rappresentato le solennità più importanti per i nostri antenati. La tradizione di accendere fuochi in occasione di equinozi e solstizi è da legare all’adorazione di Belanu. Riti ancora oggi particolarmente sentiti e riproposti nell’accensione di Pignarûi e nel tir des cidules.

Venerato dai Celti continentali ed insulari era noto per la sua influenza sulla luce solare e di conseguenza: sull’agricoltura, sulla stagionalità, sulla temperatura, sull’allevamento .. in pratica su ogni attività umana dell’epoca protostorica. Sovrintendeva, inoltre, sull’illuminazione della psiche nell’accezione spirituale e mentale, come guida alle innovazioni ed invenzioni. Il culto di Belanu era il fulcro della religiosità dei Carni; culto particolarmente sentito anche ad Aquileia dove vi era un tempio a lui dedicato (come probabilmente a Zuglio). Erodiano racconta con minuzia di particolari l’assalto dell’imperatore Massimino il Trace ad Aquileia (238 d.C.) quando Belanu fu visto difendere le mura della città.

Anche la festa rituale del Beltane celtico, celebrata in primavera per ricordare la rinascita del Dio della luce, deriverebbe proprio dall’antica tradizione legata a Belanu. Per contro, la ciclica morte del Dio della luce veniva ricordata con feste come Yule o Imbolc, intorno alla fine di dicembre. Il significato dei “fuochi friulani” è, dunque, da ricercare negli antichi riti propiziatori e di purificazione celtica.

La Chiesa consacrò, poi, tali solennità alla nascita di Cristo e a San Giovanni Battista. Gli altri momenti del rinnovamento annuale, saranno così contrassegnati dal Carnevale e da Ognissanti. A mezza primavera veniva festeggiata la rinascita della natura con i riti del Calendimaggio, mentre l’estate era contrassegnata da numerose sagre paesane generalmente coincidenti con le celebrazioni del Santo patrono e da provanti pellegrinaggi.

Le feste erano l’unica occasione per concedersi un po’ di svago. Queste erano accompagnate da canti e danze. Le danze raffiguravano aspetti della vita affettiva, in particolare il corteggiamento. Tra le danze maggiormente diffuse ricordiamo la “Stajare“, la “Furlana“, la “Stiche“; balli che ritroviamo con diverse movenze a seconda della zona. Il canto, invece, troverà nella Villotta la sua massima espressione lirica.

I giorni di festa coincidevano con le principali scadenze liturgiche oppure con i festeggiamenti legati al ciclo agrario. In particolare, il licôf (la prima testimonianza scritta risale al 1337) si organizzava alla fine della costruzione di una casa, quando si uccideva il maiale o si finiva la vendemmia.

Particolarmente sentita tra la popolazione era la Pasqua. Il Giovedì ed il Venerdì Santo le campane delle chiese erano mute. I ragazzi correvano per le strade con chiassosi arnesi (cràzzulis, mazzalutis, batècui o batitòcs) che ricordavano le ferite inferte a Gesù. Le chiese stesse erano dotate di cràzzulis (anche di grandi dimensioni) che venivano utilizzate dal campanile per segnalare le funzioni durante il periodo di silenzio delle campane. Il Venerdì Santo, era segnato da momenti di raccoglimento e rappresentazioni sacre. Era d’uso non far lavorare gli animali, mentre le sale di spettacolo rimanevano chiuse. Alla mezzanotte del sabato le campane annunciavano la risurrezione di Gesù. Era d’uso lavare gli occhi o il volto per preservare la vista dalla malattia o più in generale per lavare l’anima dai peccati.

Numerosi erano i riti anche in tempo natalizio. Sul far del tramonto del 5 Dicembre in molte località montane e pedemontane si festeggia San Nicolò. Secondo tradizione, con la barba folta e bianca e accompagnato da Angeli, distribuiva dolci ai più piccoli e buoni. Non portava grandi regali: si trattava essenzialmente di frutta secca e poco più. Appena il sole tramontava, San Nicolò scompariva lasciando la popolazione alla mercè dei diavoli, i Krampus, che sbucavano nella notte alla frenetica ricerca dei bambini cattivi.

Dall’antica tradizione della chiesa aquileiese ci giunge invece il “Missus” o novena di Natale. Nei nove giorni che precedono il Natale la comunità si radunava in chiesa per prepararsi alla Natività. Un altra usanza molto diffusa era l’accessione del “Nadalin” (chiamato anche “zoc”) la notte della vigilia di Natale. Posto nel fogolâr, veniva accesso prima della messa di mezzanotte dal famigliare più giovane e sorvegliato da quello più anziano. Il “nadalin” doveva rimanere acceso fino a Capodanno, ma se si riusciva a mantenerlo ardente fino all’Epifania, questo avrebbe portato fortuna a tutta la casa.

Era dunque la terra, la principale fonte di ricchezza. Tutto girava intorno ad essa. La vita stessa era dettata dai lavori nei campi, tanto che la famiglia era allo stesso tempo nucleo sociale e produttivo.

Alla sera ci si riuniva per cenare, anticipatamente rispetto ad oggi per assecondare le esigenze lavorative e del riposo. La cucina era basava su prodotti poveri ma naturali, sapientemente combinati tra loro ed arricchiti da erbe spontanee raccolte ai margini del bosco. Molte erano le varietà di minestra (come quelle di orzo e fagioli o di verze e patate), così come le farinate (tra queste lo zuf fatto con farina di mais e zucca). Assai diffusa era la frittata, così come il frico nelle sue differenti preparazioni (con o senza patate, fuso, croccante …). Rara era la carne, consumata prevalentemente in occasione delle principali festività. Sempre presente era invece la polenta. La bevanda da pasto era il vino .. tra le poche cose che davano conforto.

L’imbrunire era accompagnato dalla narrazione di racconti e leggende, tramandate dagli anziani. Proverbi, detti, fiabe e aneddoti erano, di fatto, lo strumento principale di intrattenimento. La tradizione secolare suggeriva anche i metodi, seppur empirici, per la cura di malattie dell’uomo, degli animali e delle piante.

Nel tempo si consolidarono nell’immaginario collettivo credenze e superstizioni, seppur accanto ad una profonda fede cristiana. Il demonio agiva sotto diverse spoglie. Si conviveva così con differenti minacce come: la gjate marangule, il basalisc, l’orcul, l’omp salvadi, la strie, i spirts. Nei corsi d’acqua vivevano le aganis mentre nei boschi gli sbilf, spesso intenti a fare burle e dispetti.

La strega era presente in quasi tutti i villaggi. Era capace di portare improvvise malattie, di prosciugare fontane, avvelenare le acque, danneggiare i raccolti o portare cattivo tempo. Quando Papa Giovanni XXII (1316-1334) estese la competenza degli inquisitori alle persone sospettate di compiere atti di stregoneria, anche in Friuli cominciò “la caccia alle streghe” che portò spesso a processi sommari.

Un’altra figura altrettanto importante nell’immaginario collettivo era quella del benandante, una specie di mago, tramite tra il mondo dei morti e quello dei vivi. I benandanti, si dedicavano anche al governo degli eventi atmosferici, ad esempio richiamando la pioggia o scongiurando la grandine. Erano inoltre esperti di filtri e pozioni.

Il “ciclo della vita” era contrassegnato da “riti di passaggio”. La nascita, in particolare, era accompagnata da molte accortezze. Il battesimo era segnato da diversi rituali che genitori e padrini dovevano necessariamente assecondare. La scelta del nome era generalmente influenzata dal Santo del giorno o dal ricordo di un antenato defunto. Il passaggio dall’infanzia alla giovinezza era un altro momento importante che per i maschi andrà a coincidere con la visita di leva e la coscrizione obbligatoria. Anche il matrimonio aveva i suoi rituali. Questo era preceduto da un periodo di fidanzamento, dalla pattuizione della dote e dai preparativi dei cerimoniali che portavano al giorno delle nozze. Se poi lo sposo era di un altro villaggio era d’obbligo pagare un “pedaggio” ai giovani del luogo. Infine la morte. Questa veniva annunciata dal suono delle campane. Il corpo veniva benedetto con un rametto di olivo intinto nell’acquasantiera. Al funerale partecipavano tutti i parenti che poi venivano accolti nella casa del defunto per un breve momento conviviale.

Oggi parte delle usanze qui descritte sono scomparse, altre continuano ad alimentarsi di generazione in generazione come nulla fosse cambiato. Negli ultimi decenni sono sbocciate anche numerose rievocazioni. Vengono così riproposti avvenimenti, personaggi, mestieri e rituali di un passato ormai lontano. Esperienze stimolanti specie per i più giovani.

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